Storia delle Arti Marziali Giapponesi
Da Bodhidharma al budo moderno
Le origini delle arti marziali giapponesi
Considerando la storia delle arti marziali giapponesi si deve tenere presente che il Giappone ha risentito delle influenze cinesi in diversi aspetti della propria cultura, d’altronde è stata una peculiarità giapponese per diverso tempo quella di assorbire elementi culturali esterni e rielaborarli in maniera propria.
La scrittura, ad esempio, deriva da caratteri cinesi. Questi furono introdotti nell’isola verso il VII secolo d.C., grazie alla diffusione del buddhismo favorito sicuramente dai nascenti commerci del Giappone con Cina e Corea. Secondo alcune fonti storiche, infatti, si può collocare l’introduzione del buddhismo in Giappone nel 736 d.C. L’imperatore Shomu invitò a corte un famoso monaco cinese di scuola Lu, Daoxuan Lushi (in giapponese Dosen Rishi), contribuendo alla diffusione del buddhismo, pare in seguito ai contatti con i re Coreani, i quali magnificavano all’imperatore la dottrina del Buddha già diffusa da qualche tempo sul continente. La rivoluzione culturale portata da Bodhidharma (Daruma in giapponese) in Cina, portò alla diffusione del buddhismo Chan (Zen in Giappone). In Giappone, si fuse con gli elementi shintoisti già presenti nella cultura arcaica, costituendo un nucleo unico e nuovo che porterà a quello che sarà il futuro Giappone. Attraverso questi scambi culturali e commerciali che portarono in Giappone molte innovazioni, anche le arti marziali nate in Cina, iniziarono a essere diffuse sul territorio giapponese.
Uno dei primi trattati commerciali ufficiali con la dinastia Ming risale al 1372, un esempio in tal senso è la diffusione in Okinawa di stili di combattimento portati dalle comunità cinesi e denominati semplicemente con il nome della famiglia del maestro concatenato al suffisso Te (mano). Il significato originario dell’ideogramma per la parola karate è, infatti “mano cinese”, ma dopo la Restaurazione Meiji esso sarà sostituito da un diverso ideogramma, dall’identica pronuncia che significa invece mano vuota.
Va aggiunto che in quel periodo diverse famiglie giapponesi di alto rango inviavano i propri giovani a essere educati in Cina in varie arti e fra queste c’erano anche vari stili di arti marziali già diffusi nel continente.
Lo sviluppo delle arti marziali giapponesi
Sicuramente un grande stimolo allo sviluppo di queste arti fu offerto dalle particolari condizioni storiche che caratterizzarono il Giappone nei secoli successivi, infatti, un sanguinoso periodo di guerra prima (periodo Sengoku) e, un lungo periodo di pace poi (periodo Tokugawa) contribuirono alla diffusione prima e al raffinamento poi di numerose forme di arti marziali, legando queste ultime intimamente all’essenza della cultura giapponese. Il Nihon Shoki Nihonji (cronaca del Giappone, compilata nel 720 d.C.) riferisce che già nel 230 a.C. ebbero luogo pubbliche competizioni di forza, che servivano anche a selezionare gli uomini più vigorosi, destinati alla guardia imperiale o alla formazione di corpi speciali.
Il più famoso incontro di lotta che si ricordi fu quello combattuto davanti all’Imperatore Suinin (29 a.C.-70 d.C.) da Taima-no-Kehaya e Nomi-no-Sukune, che uccise l’avversario spezzandogli la schiena. Il vincitore ricevette onori e ricchezze, nonché l’incarico di regolamentare il suo efficacissimo metodo di lotta per renderlo meno pericoloso.
Nomi-no-Sukune selezionò allora 48 colpi (12 riguardavano la testa, 12 il tronco, 12 le mani e 12 le gambe) e chiamò sumo il nuovo stile.
Da una forma di combattimento primitivo e cruento (chikara-kurabe), il sumo progredì verso una forma di addestramento militare, fino a diventare un vero e proprio rito durante le raffinate epoche Nara e Heian, imbevute di cultura cinese: l’Imperatore Shomu (724-740), infatti, lo incluse tra i giochi della Festa di Ringraziamento per il raccolto.
L'importanza del sumo
L’importanza del sumo fu veramente grande, visto che nell’858 Korehito e Koretaka, figli dell’Imperatore Montuko, arrivarono a disputarsi il trono con un incontro di lotta tra i campioni Yoshiro e Natora. Vinse Yoshiro e Korehito divenne l’Imperatore Seiwa.
I primi lottatori professionisti si esibirono a Edo nel 1623. Nonostante qualche dimostrazione all’estero, il sumo ha sempre avuto un carattere esclusivamente nazionale e ancora oggi gli incontri si svolgono secondo l’antico cerimoniale, compreso il propiziatorio lancio di sale sulla pedana.
La diffusione del jujutsu
Dal Giappone si è invece diffuso in tutto il mondo il jujutsu, o “arte della flessibilità” le cui origini si perdono nelle leggende. La più nota racconta che intorno alla metà del ‘500 un medico di Nagasaki, Shirobei Akiyama, si recò in Cina per approfondire le sue cognizioni sui metodi di rianimazione, che presupponevano una perfetta conoscenza dei punti vitali del corpo umano.
Akiyama, uomo di moltiforme ingegno, approfittò del soggiorno nel continente per studiare anche il taoismo e le arti marziali cinesi. Tornato in patria, durante un periodo di meditazione notò che i rami robusti degli alberi si spezzavano sotto il peso della neve, mentre quelli di un salice si piegavano flessuosi fino a scrollarsi de peso, per riprendere poi la posizione senza aver subito danni. Applicando alle tecniche di lotta apprese in Cina le considerazioni maturate sulla cedevolezza o “non resistenza”, fondò la scuola Yoshin (del “cuore di salice”).
Non è questa la sede per trattare del taoismo, ma va evidenziato che alla base stanno i due principi complementari Yin e Yang, l’aspetto positivo e negativo dell’Universo: nessuno dei due può esistere senza l’altro. Nel mondo tutto è in perpetua mutazione tra questi due poli attraverso combinazioni dinamiche. Lo Yang rappresenta la durezza e l’attacco, lo Yin la morbidezza e la difesa.
Le molte scuole di jujutsu, pur con diverse sfumature, fecero proprio questo fondamentale concetto, che rivoluzionò la maniera di lottare: la morbidezza può vincere la forza. Va inoltre sottolineato che “ai livelli più alti delle arti marziali, il punto più importante di tutte queste strategie sta nello sviluppare una sensibilità intuitiva verso le leggi dell’universo. Lo scopo più profondo non è semplicemente sconfiggere gli avversari ma giungere al modo (“Do” o “Tao”), che è il modo in cui funziona l’universo (Payne) “. Il jujutsu si sviluppò sotto nomi diversi secondo il gruppo di tecniche che si preferiva approfondire (proiezioni, immobilizzazioni, percussioni, ecc.), raggiungendo il massimo splendore durante il lungo periodo di pace instaurato da Ieyasu Tokugawa dopo la battaglia di Segikahara (1603) e la conquista del castello di Osaka (1615).
La decadenza del bujutsu
La fine delle guerre civili che avevano insanguinato il Giappone dal XII secolo, interrotte soltanto per respingere le invasioni mongole di Kublai Khan, lasciò disoccupati migliaia di Samurai, che divennero perciò Ronin (“uomini onda”, ossia guerrieri senza padrone).
Molti di loro pensarono quindi di mettere a frutto quanto avevano appreso sui campi di battaglia, raccogliendo e perfezionando le tecniche di combattimento senz’armi ereditate dal passato, e mentre in precedenza esistevano solo scuole private a uso dei grandi clan, ognuno dei quali elaborava e tramandava al suo interno colpi di particolare efficacia, sorsero allora scuole di bujutsu (arti marziali) aperte a tutti.
L’uso strategico del corpo umano raggiunse livelli sbalorditivi di efficienza. Due secoli e mezzo di pace durante lo shogunato Tokugawa furono possibili grazie a un rigoroso controllo verticistico che tendeva al mantenimento dell’ordine. Divennero difficoltosi i contatti all’interno e furono decisamente vietati quelli con l’esterno, pena la morte, relegando il paese fuori dalla storia.
La restaurazione Meiji e l'impatto sulle arti marziali
Intorno alla metà del XIX secolo, però alla ricerca di nuovi mercati commerciali, le grandi potenze decisero di porre fine all’isolamento nipponico.
L’8 luglio 1853 il commodoro Matthew Calbraith Perry giunse nella baia di Uraga con le sue celebri quattro “navi nere”, chiedendo in nome del Presidente Fillmore l’apertura del Giappone al mondo occidentale. In seguito ai temporeggiamenti nipponici, Perry tornò nel febbraio 1854 con otto navi, facendo chiaramente intendere che non avrebbe tollerato il rifiuto. Al trattato di Kanagawa con gli USA seguirono ben presto quelli con la Gran Bretagna e Russia, gettando nello sconforto quanti avrebbero preferito morire combattendo contro un nemico meglio armato che sottostare a un umiliante cedimento. I contrasti fra “falchi” e “colombe” si acuirono via via fino a spaccare il paese. Ne conseguì inevitabilmente una sanguinosa reazione a catena, culminata nel 1868 con la fine del Bakafu (shogunato) Tokugawa e con la “restaurazione Meiji”: dopo sette secoli il potere politico dalle mani dello shogun tornava in quelle dell’Imperatore.
Il giovane Mutsuhito Meiji, 122° esponente della dinastia, trasferì la capitale di Kyoto (ove risiedeva dal 794) a Edo, che chiamò Tokyo, ossia “capitale dell’est”, inaugurando l’era Meiji (1868-1921), sotto l’infatuazione per la civiltà e i costumi occidentali, il bujutsu subì una rapida decadenza (anche per l’enorme diffusione delle armi da fuoco) e non pochi esperti, rimasti senza allievi, per sopravvivere in una società profondamente mutata dovettero esibirsi a pagamento in squallidi locali o finirono nella malavita. I Maestri non tramandavano più il loro sapere, portandosi nella tomba i segreti del Ryu (scuola): un grande patrimonio di nobili tradizioni stava per scomparire.
Alcune Ryu riuscirono comunque a sopravvivere nonostante tutto, ma subirono un’ulteriore crisi dopo la Seconda Guerra Mondiale: molte furono costrette a chiudere per mancanza di allievi, o per la morte durante il conflitto degli eredi depositari delle loro tecniche.
Il passaggio dal bujutsu al budo
Non è possibile stabilire con certezza quando si passò dal bujutsu al budo, ma è probabile che si debba alla rielaborazione dell’insieme delle conoscenze di ciascuna scuola, che le portò a passare da semplice insegnamento di tecniche pratiche all’istituzione di una vera e propria serie di precetti morali e filosofici da seguire. Non più semplice “educazione alla lotta”, volta a disciplinare il corpo ma “educazione del sé”, il cui scopo diventava fornire la strada per la completa realizzazione dell’individuo.
Per ciascuna scuola il momento in cui avvenne questo passaggio è diverso e difficile da stabilirsi con precisione, ma si può affermare che grosso modo si esaurì durante la prima metà del XX secolo.
Una rielaborazione che in qualche modo il declino iniziato nel Periodo Meiji dovette favorire: ogni scuola divenne ancora più esclusiva e per non estinguersi doveva affinare sempre più il bagaglio di conoscenze che trasmetteva, esulando dal solo piano fisico-corporeo.